La cosa piú strana era questa: era inverno e apparivano indizi della primavera. Certi ragazzi, dalla sciarpa intorno al collo, passavano scalzi. Qualche verde spuntava nei fossi lungo i campi brulli; e il mandorlo tendeva sul cielo rami pallidi.
Dileguate le piogge, anche il mare ridivenne tenero e chiaro. Stefano, nell'aria fresca, riprese a camminare sulla spiaggia, fantasticando oziosamente che la fine dell'inverno l'avesse annunciata Concia scalza, fin dal giorno di quel suo ingresso nel negozio. Il mare pareva un prato, ma i mattini e le notti eran diacci, e Stefano si scaldava ancora al catino di cenere. La campagna era fango indurito Stefano la vedeva già colorirsi e ingiallire e ricongiungersi all'estate, e concludere il ciclo delle stagioni. Quante volte vi avrebbe assistito laggiú?
Anche Giannino vedeva finire l'inverno, dal colore dell'aria della sua finestretta. Quante volte vi avrebbe assistito? Per fuggevoli e scarsi che fossero i suoi indizi della primavera — una nuvola o un filo d'erba nel cortile del passeggio — era cosa certa che anche un taciturno come lui ci si doveva abbandonare con struggimento. Forse la grazia della primavera gli riportava a mente qualche tenero ricordo di donna — forse Giannino rideva di essere proprio carcerato per questo — certo, se non sentiva le stagioni e i colori del mondo, Giannino sentiva la bellezza di un grembo, di un gesto femminile, di una scherzosa oscenità. Chi sa che la sua Carmela non fosse contenta pensando che adesso non poteva piú andare a caccia di quaglie.
— Don Giannino Catalano attende il processo per marzo, si ricorda di voi, e vi saluta, ingegnere, — aveva detto il meccanico.
Ripartita la piccola donna — che Stefano non aveva toccato, pur chiudendosi con lei qualche minuto per non essere scortese verso Gaetano — a Stefano accadde un fatto che la sua fantasia interpretò infantilmente come un oscuro compenso della Provvidenza. Trovò sul suo tavolo, rientrando la sera, un mazzetto di fiori rossi, ignoti, in un bicchiere, e accanto un piatto, sotto un altro piatto capovolto, di carne arrostita. La stanza era rifatta e spazzata. La valigia, sul tavolino nudo piena fino all'orlo di biancheria lavata.
Nei pochi istanti ch'era stato nel covo, Stefano senza sedersi sul materasso aveva chiesto alla donna se era stanca, le aveva dato da fumare e, pur sapendo di farlo solamente per disgusto s'era astenuto da lei. Le aveva detto: — Vengo solo a salutarti, — sorridendo per non offenderla; e l'aveva guardata fumare, cosí piccola e grassa, i capelli viziosi sulle spalle, il reggiseno rosa e innocente, dal ricamo consunto.
E adesso, in quella riconciliazione che Elena gli proponeva col mazzetto di fiori, Stefano vide un'ingenua promessa di pace, un assurdo compenso, che piú che da Elena gli veniva dalla sorte, per la sua buona azione. Naturalmente Annetta l'aveva rispettata per semplice disappetenza, ma Stefano non fece in tempo a sorridere della sua ipocrita ingenuità, che lo prese un terrore. Quello della spiaggia, del ficodindia, del succo verde penetrato nel sangue. Il sospetto della mattina che aveva saputo di Giannino e camminato indocile sentendosi ghermire dallo spirito di quella terra. “Meno male che stavolta non piango”.
Non solo non piangeva, ma la sua agitazione aveva qualcosa di gaio e d'irresponsabile. Che una buona azione potesse venire oscuramente premiata da un mazzo di fiori, l'aveva sempre temuto. Ma ecco che adesso poteva dare un nome alla cosa: superstizione, crassa superstizione, quella dei villani che levavano il capo a quel cielo e sbucavano sull'asino da sotto gli ulivi.
Mortificato, Stefano cercò di valutare il gesto di Elena, poiché ormai sapeva di averla in sua mano e poterla chiamare o respingere a piacere. Cenava intanto con la carne arrostita di quel piatto, e la trovava cosí saporita che pensò di mangiar subito l'arancia e tornar dopo alla carne.
C'era qualcosa di mordente nella carne, che Stefano risentí sulla lingua succhiando l'arancia. Pepare e drogare forte era l'usanza del paese e tanto piú sotto le feste, ma Stefano ebbe un altro sospetto. Per un istante immaginò che Elena si volesse vendicare e gettargli nel sangue un incendio. Anche i bizzarri fiori rossi lo dicevano. Ma in quel caso valeva la pena di avere riguardi? Stefano, imbaldanzito dalla recente astinenza, se la rise e mangiò con piú foga.
Elena la vide l'indomani traversare tranquilla il cortile e l'attese alla porta. Si guardarono imbarazzati. Stefano, che aveva dormito in pace, si scostò, la fece entrare, e dalla soglia le mandò un bacio con le labbra. L'occhiata di lei fu quasi furtiva, ma al primo passo di Stefano scosse il capo inquieta. — D'or innanzi non ti toccherò piú, sei contenta? — disse Stefano, e se ne andò avendo visto Elena immobile in mezzo alla stanza, sorpresa.
Stefano cominciò a capire quanta forza gli veniva da quella povera Annetta casualmente rispettata. Non da lei, ma dal suo proprio corpo, che trovava un equilibrio in se stesso e ridava un'energica pace anche all'animo. Si disse quant'era sciocco ch'egli avesse cercato con orgoglio d'isolare i suoi pensieri, e lasciato il suo corpo sfibrarsi nel grembo di Elena. Per essere solo davvero, bastava un nonnulla: astenersi.
Gaetano e il meccanico all'osteria riparlarono d'Annetta. Stefano li ascoltava sornione, ben sapendo che un giorno avrebbe dovuto piegarsi. Ma allora avrebbe cercato Elena. Ascoltava compunto per mettere alla prova il suo distacco
Disse il meccanico: — Chi sa l'amico come se la sognerebbe l'Annetta!
— Voi siete fortunato, ingegnere, — disse Gaetano, — nemmeno le donne vi si lascia mancare.
Stefano disse: — Però non è giusto che Giannino, carcerato perché faceva all'amore, non possa almeno distrarsi con quella che l'ha messo nei guai.
— Vorreste trasformare la giustizia, — disse il meccanico. — Allora che prigione sarebbe?
— Voi credete che la prigione consista nell'astinenza?
— Come no?
Gaetano ascoltava soprapensiero
— Vi sbagliate, — disse Stefano, — la prigione consiste nel diventare un foglio di carta.
Gaetano e il meccanico non risposero. Gaetano anzi fece un segno alla vecchia padrona, che gli portasse il mazzo di carte. Poi, siccome entrò Barbariccia a seccarli, il discorso si spense.
La primavera era illusoria, e la campagna desolata. Dalla spiaggia, triste perché non ci si poteva nemmeno nuotare, Stefano certe mattine spaziava nella luce fredda lo sguardo sulle casette acri e rosee, come in quei giorni lontani del luglio. Sarebbe venuto — doveva venire — un mattino che Stefano dal treno avrebbe veduto l'ultima volta il poggio a picco. Ma quante estati dovevano ancora passare? Stefano invidiò persino l'anarchico relegato lassú, che vedeva pianure, orizzonti e la costa, come un gioco minuscolo attraverso l'aria; in fondo, la nuvola azzurra del mare; e tutto aveva per lui la bellezza di un paese inesplorato, come un sogno. Ma rivide pure l'angustia delle viuzze e delle finestre, le quattro case a perpendicolo sull'abisso, ed ebbe vergogna della sua viltà.
Gliel'aveva detto anche Pierino, la guardia di finanza, che il maresciallo ormai si fidava di lui, chiedendosi persino se piú che colpevole non fosse stato fesso; e Stefano cominciò a spingersi sornione per la strada del poggio, fra gli ulivi, sperando di esser visto di lassú. Dell'anarchico aveva sentito notizie da una donnetta scesa a comprare nel negozio di Gaetano: giocava coi bambini sul piazzale della chiesa, dormiva in un fienile e passava la sera a discutere nelle stalle. Stefano non avrebbe voluto incontrarlo — viveva ormai di abitudini, e le convinzioni di quel tale, e quella barba, l'avrebbero scosso — ma a dargli il conforto di non sentirsi abbandonato, era disposto.
Passeggiava quindi verso il tramonto sulla strada del poggio, si sedeva su un tronco che guardava una valletta presso la casa cantoniera, e fumava la pipa, come avrebbe fatto Giannino.
Una volta, nell'estate, s'era appena seduto su quello stesso tronco, che aveva sentito uno scalpiccio, e un gruppo di uomini magri — contadini, manovali — era passato, preceduto da un prete in stola. Quattro giovanotti portavano una bara, sulle spalle brune, a maniche rimboccate, ogni tanto asciugandosi la fronte col braccio libero. Nessuno parlava; procedevano a passi disordinati, levando un polverone rossastro. Stefano s'era alzato dal tronco, per rendere omaggio al morto ignoto, e molte teste s'erano voltate a guardarlo. Stefano ricordava di essersi detto che per tutta la vita avrebbe sentito lo scalpiccio di quella turba nell'immobile frescura del tramonto polveroso. Ecco invece che l'aveva già scordato.
Quante volte, specialmente i primi tempi, Stefano si era riempiti gli occhi e il cuore di una scena, di un gesto, di un paesaggio, dicendosi: “Ecco, questo sarà il mio piú vivo ricordo del passato; ci penserò l'ultimo giorno come al simbolo di tutta questa vita; lo godrò, allora”. Cosí si faceva in carcere, scegliendo una giornata sulle altre, un istante sugli altri, e dicendo: “Devo abbandonarmi, sentire a fondo quest'istante, lasciarlo trascorrere immobile, nel suo silenzio perché sarà il carcere di tutta la mia vita e lo ritroverò, una volta libero, in me stesso”. E questi attimi, com'erano scelti, cosí dileguavano.
Doveva conoscerne molti l'anarchico, che viveva a una perenne finestra. Se pure non pensava a tutt'altro e per lui la prigione e il confino non erano come l'aria la condizione stessa della vita. Pensando a lui, pensando al carcere passato, Stefano sospettava un'altra razza, di tempra inumana, cresciuta alle celle, come un popolo sotterraneo. Eppure quell'essere che giocava in piazza coi bambini, era insomma piú semplice e umano di lui.
Stefano sapeva che la sua angoscia e tensione perenne nascevano dal provvisorio, dal suo dipendere da un foglio di carta, dalla valigia sempre aperta sul tavolo. Quanti anni sarebbe restato laggiú? Se gli avessero detto per tutta la vita, forse avrebbe vissuto i suoi giorni piú in calma
In un mattino di umido sole, a gennaio, passò sullo stradale un'automobile veloce, carica di valige, che non rallentò neppure. Stefano levò appena gli occhi, e rivisse un altro istante dimenticato dell'estate.
Nel sole torrido del mezzodí s'era fermata un'automobile davanti all'osteria. Bella sinuosa e impolverata, d'un color chiaro di crema, dal docile e quasi umano arresto, s'era accostata al marciapiedi privo di ombra; e n'era scesa una donna slanciata, in giacchetta verde e occhiali neri, una straniera. Stefano tornava allora dalla spiaggia, e guardava dalla soglia la strada vuota. La donna s'era guardata attorno, aveva fissata la porta (Stefano capí poi che il riverbero del sole la ottenebrava) e voltandosi era risalita sulla macchina, s'era chinata e ripartita, in un lieve fruscio che un poco di polvere aveva involato.
A volte, a Stefano pareva di esser là da pochi giorni e che tutti i suoi ricordi fossero soltanto fantasie come Concia come Giannino e l'anarchico. Ascoltava le chiacchiere del calvo Vincenzo che all'osteria, mentre lui mangiava, fino all'ultimo leggeva il giornale.
— Vedete, ingegnere: “Tempo mosso”. Sempre i soliti, i giornali. Domando a voi se la marina non è un olio, quest'oggi.
Per la porta si vedevano i ciottoli e una fetta del muro di Gaetano, tranquilli nell'umido sole. Dei ragazzi vociavano giú per la strada, invisibili.
— È quasi il tempo della pesca delle seppie. Non l'avete mai veduta? Vero, siete arrivato in giugno, l'altr'anno... Si fa di notte, con la lampada e l'acchiappafarfalle. Dovreste chiedere il permesso...
Sulla soglia comparve il maresciallo, nero e rosso, faccia inquieta da perlustrazione.
— Vi cercavo, ingegnere. Sapete la nuova?... Finite, finite di mangiare.
Stefano saltò in piedi.
— Hanno respinto il ricorso, ma vi hanno concesso il condono. Da stamattina siete libero, ingegnere.
Nei due giorni che Stefano attese il foglio di via, il crollo delle sue abitudini fondate sul vuoto monotono del tempo, lo lasciò come trasognato e scontento. La valigia che aveva temuto di non fare in tempo a preparare, la chiuse in un batter d'occhi, e dovette riaprirla per cambiarsi le calze. Dalla madre di Giannino non osò prendere commiato, per timore di farla soffrire con la sua libertà insolente. Continuò a gironzolare dalla sue stanza all'osteria, incapace di fare una corsa piú lontano, di salutare a uno a uno i luoghi deserti pallidi, della campagna e del mare, che tante volte aveva divorato con gli occhi, nel tedio esasperato, dicendosi: “Verrà l'ultima volta, e rivivrò quest'istante”.
Gaetano e Pierino corsero a cercarlo in casa. Stefano, che mai aveva vista la sporcizia della sue stanza come adesso che ci avrebbe dormito per l'ultima volta, li fece entrare e sedere sul letto, ridendo scioccamente dei mucchi di cartaccia, dei rifiuti e della cenere buttata negli angoli. Gaetano diceva: — Se passate da Fossano, salutatemi le ragazze —. Discussero insieme gli orari dei treni, le stazioni e i diretti, e Stefano incaricò Pierino di ricordarlo a Giannino.
— Gli direte che dà piú soddisfazione uscir di carcere che non dal confino. Oltre le sbarre tutto il mondo è bello, mentre la vita di confino è come l'altra, solo un po' piú sporca.
Poi prese il coraggio alla gola, e di sera nell'ora proibita entrò nel piccolo negozio. La madre era già a letto; venne Elena sotto la bianca acetilene a servirlo. Le disse che pagava la stanza, perché tornava a casa; poi attese un momento, nel silenzio, e disse che il resto, nulla avrebbe potuto pagarlo.
Elena con la sua voce roca balbettò imbarazzata: — Non si vuole bene per essere pagati.
“Volevo dir la pulizia”, pensò Stefano, ma tacque e le prese la mano inerte e la serrò, senza levare gli occhi. Elena, dall'altra parte del banco, non si muoveva.
— A casa chi ti aspetta? — disse piano.
— Non ho nessuna e sarò solo, — rispose Stefano, accigliandosi senza sforzo. — Vuoi venire stanotte?
Non dormí quella notte e ascoltò passare i due treni, della sera e dell'alba, con una delusa impazienza, anticipandone il fragore e trovandolo mancato. Elena non venne, e non venne al mattino, e spuntò invece il ragazzo dell'anfora a chiedere se voleva che andasse a prendergli l'acqua. Doveva aver saputo le novità, cosí bruno e monello com'era e Stefano gli diede la lira che i suoi occhi chiedevano. Vincenzino scappò via saltando.
Nella mattina salí al Municipio dove gli fecero i rallegramenti e gli diedero un'ultima lettera. Poi andò all'osteria dove non c'era nessuno. Sarebbe partito alle quattro di quel pomeriggio.
Traversò la strada per salutare Fenoaltea padre. Trovò pure Gaetano, che lo prese a braccetto e uscí con lui cominciando un discorso dove gli chiedeva di scrivere se potesse trovargli un buon posto lassú. Stefano non pensò di chiedere che lavoro.
Vennero allora Beppe, Vincenzo, Pierino, e degli altri, e fecero una bicchierata e poi fumarono discorrendo. Qualcuno propose di giocare alle carte, ma la proposta cadde.
Appena mangiato, Stefano andò a casa, traversò il cortile, prese la valigia già chiusa, si guardò appena intorno e uscí nel cortile. Qui si fermò di fronte al mare, un istante — il mare che si vedeva appena, di là dal terrapieno — e poi girò il sentiero e risali sulla strada.
Ritornando verso l'osteria salutava con un cenno qualcuno dei bottegai che conosceva. La soglia d'Elena era deserta.
All'osteria trovò Vincenzo, e parlarono un'ultima volta di Giannino. Stefano aveva pensato di fare un passo sulla strada dell'argine, davanti alla casa di Concia, ma poi giunsero Pierino e gli altri, e attese con loro le quattro.
Quando, entrati nella stazione, pazientarono tutti sulla banchina e si sentí finalmente il tintinnio segnalatore del treno, Stefano stava sbirciando il paese antico che sporgeva miracolosamente sul tetto, quasi a portata di mano. Poi vide, contemporaneamente, il treno lontano, alla svolta; il capostazione sbucare gigantesco e farli indietreggiare tutti quanti; e davanti, oltre il canneto, il mare pallido che parve gonfiarsi nel vuoto. Stefano ebbe l'illusione, mentre il treno giungeva, che turbinassero nel vortice come foglie spazzate i visi e i nomi di quelli che non erano là.